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Estratto "Cinque Passi nel Buio"

Il treno tardava ad arrivare. Nella modesta stazione della cittadina solo qualche voce, i due binari deserti e Diana lì, sola ad aspettare quel treno, un treno per tornare in città dopo qualche giorno di riposo nella vecchia, ma sempre accogliente casa dei nonni.
L’oscurità cominciava a scendere lenta e dolciastra, densa di profumi primaverili e sensazioni astratte.
D’un tratto la voce scandita dall’altoparlante s’intrufolò prepotentemente nei pensieri di Diana.
"Il treno diretto a New York viaggia con circa mezzora di ritardo."
"Che palle…" – sbottò la ragazza.
Un gatto spiccò un balzo sui binari, e la sua zampa, veloce come il lampo, si abbatté violentemente sulla testa di un passerotto che, un attimo dopo, si trovava inerte nella sua bocca.
Diana aveva sempre pensato come fosse facile passare dalla vita alla morte: un attimo di felicità e poi il buio!
Eppure i suoi diciotto anni non le dovevano consentire di partorire, così di frequente, questo genere di pensieri, ma la sua indole, la sua sensibilità, la trasportavano verso una malinconia a volte leggera, a volte profonda, che le si leggeva dentro lo scuro meandro dei suoi occhi.
Era molto bella, con un viso ovale incorniciato da dei lunghi capelli neri e lisci che le scendevano lungo la schiena; il suo corpo era snello e ben slanciato, e la sua carnagione piacevolmente olivastra. Insomma era bella, intelligente ed inoltre aveva degli ottimi genitori.
Perché, allora, si sentiva così spesso depressa e senza verve?
Perché non era sempre allegra e spensierata come le sue amiche, come Lucy, come Leight, come Barbara?
Guardò lungo i binari, mentre l’oscurità nel frattempo, come due immense ali nere, era calata sopra la stazione.
Si voltò indietro per cercare con lo sguardo di intravedere qualcuno.
Nessuno.
Non aveva mai provato paura nel trovarsi da sola in luoghi bui ed oscuri. Ma questa volta avvertiva qualcosa di diverso. Non aveva letteralmente paura, erano solo vaghe sensazioni. Come quella volta che era rimasta chiusa nell’ascensore del suo palazzo per più di un’ora.
Non aveva avuto paura.
Solo un senso di disagio.
Le si materializzò, ancora nella mente, la fulminea zampata del gatto sul corpicino indifeso del passerotto.
Un attimo di felicità………..e poi il buio!
L’altoparlante era lì, silenzioso e senza vita come un’antica radio spenta dal tempo.
Due grandi occhi gialli apparvero minacciosamente dal profondo dell’oscurità. Lo sferragliare delle ruote sulle traversine d’acciaio giunse come una inaspettata ma gradevole sorpresa alle sue orecchie.
Finalmente, pensò.
Guardò il quadrante dell’orologio della stazione. Il display indicava le venti e trenta.
Un secondo più tardi la macchina motrice passò davanti ai suoi occhi.
Non vide il macchinista.
Poi un soffio d’aria compressa e le porte si aprirono. La ragazza osservò il treno con una punta di esitazione, poi salì nel vagone; percorse un breve tratto di corridoio e s’infilò nel primo scompartimento. Si sedette ed appoggiò la borsa accanto a sé. Attraverso il finestrino vide il gatto che stava giocando con i resti del passerotto.
..e poi il buio!
Continuò a fissarlo fino a che le porte non si richiusero ed il gigante d’acciaio riprendeva lentamente la sua marcia. Diana si rese conto che dagli altri scompartimenti non giungeva alcun rumore, nessuna voce.
Strano, perché le altre volte che aveva viaggiato con quel treno, aveva sempre visto numerose persone. Non che quella fosse una linea particolarmente frequentata, comunque era pur sempre un treno utilizzato dai pendolari che lavoravano da quelle parti.
La stazione si allontanava, l’altoparlante non annunciò nessuna partenza.
Possibile che non avesse annunciato nemmeno il suo arrivo. Perlomeno lei non se ne era accorta.
Appoggiò una mano sulla fodera della poltrona sulla quale si trovava seduta, ed avvertì uno spesso strato di polvere venire a contatto con la pelle del palmo della mano.
Esaminò scrupolosamente anche le altre poltrone e vide che erano tutte impolverate, come se nessuna anima viva vi si fosse seduta sopra da almeno dieci anni.
(che cosa sta succedendo?)
Solo un senso di disagio.
Le sue mani corsero nervosamente verso la borsa e poco dopo una marlboro le si accese in bocca.
Cominciò lentamente a rilassarsi aspirando grandi boccate di fumo e contemplando la campagna addormentata nel buio, che correva veloce lungo i finestrini.
(calmati, Diana, non sta succedendo niente)
(non far galoppare troppo la tua ombrosa immaginazione)
In quel momento il treno imboccò una galleria.
Eppure non aveva mai notato nessuna galleria lungo quella linea.
Non preoccuparti, pensò, evidentemente non ci hai mai fatto caso.
Spense la sigaretta nel portacenere appeso appena sotto il finestrino. Estrasse una rivista dalla borsa e cominciò a leggere. Cercava di distogliere la sua attenzione da tutto quello che le stava accadendo, cercava di far deviare tutta la sua materia cerebrale verso un altro interesse.
Ma non era poi così semplice, tutt’altro.
Rilesse il primo periodo di un articolo di moda almeno dieci volte senza mai averne afferrato il senso. Guardò attraverso il vetro del finestrino e con rammarico appurò che il treno stava ancora viaggiando sotto la volta della galleria. Il panico cominciò a fare breccia nel suo animo.
“Oh mio Dio!” – esclamò con tono supplichevole. “Madre mia, aiutami….”
Stava per alzarsi ed uscire nel corridoio per cercare qualcuno. Ci doveva pur essere qualche altra anima viva in quel maledetto treno.
Poi si fermò.
(calmati, Diana, cerca di calmarti)
(non sta succedendo niente)
Tornò al vetro e con fatica aprì il finestrino facendolo scorrere dall’alto verso il basso. Si sporse leggermente fuori. La galleria, l’opprimente galleria regnava sopra di lei. E per quanto Diana si sforzasse di sporgersi, non riusciva a distinguere l’uscita.
Solo un senso di disagio.
……..e poi il buio!
Richiuse il finestrino e tornò a sedere. La sua mente cominciò ad analizzare tutto quello che era successo e tutto quello che stava accadendo. La parte razionale di Diana emerse, facendosi spazio a suon di gomitate, su tutti gli altri pensieri che si mischiavano confusamente nel suo animo. Cercò di riflettere, di ragionare, emulando inconsciamente suo padre che, quando si presentava un problema da risolvere, era lì, con il suo puzzolente sigaro in bocca, pronto a far uscire dalla sua ugola rauca parole preziose e piene di saggezza.
Nei films dell’orrore, che lei tanto amava andare a vedere al cinema, succedevano strane cose, proprio come in quell’assurda situazione in cui si trovava in quel momento.
Ma quelli erano soltanto dei films. Quando si usciva dalla sala si andava a mangiare un gelato od una pizza e tutto era dimenticato.
(Diana, nella realtà, certe cose non esistono)
Tentava di comprendere, si sforzava di trovare un filo logico per rassicurare sé stessa.
Il vagone vuoto.
Una galleria mai vista prima d’allora.
L’altoparlante che non annuncia né l’arrivo, né la partenza del treno.
Le poltrone piene di polvere.
Non aveva visto il macchinista.
A quell’elenco di eventi misteriosi, o perlomeno anomali, un fremito freddo cominciò a salirle lungo il corpo, fino ad investirle il collo, come una mano gelida che l’avesse accarezzata.
Accese un’altra sigaretta e decise di uscire dallo scompartimento.
Le gambe erano talmente molli che la ragazza ripensò ad un pomeriggio invernale in cui si era recata al luna park insieme a Leight, ed erano entrate all’interno di uno di quei castelli dei fantasmi in cui si fatica enormemente a camminare a causa dei materassi o chissà cosa si trova al posto del pavimento.
Un istante dopo (o forse qualche minuto dopo) avanzava lentamente nel corridoio. Era sola, proprio come quella volta in ascensore. Il rumore della porta di collegamento tra un vagone e l’altro che si apriva, la fece sobbalzare ed il cuore le arrivò in gola. Aveva la bocca arsa, avrebbe desiderato un bel bicchiere d’acqua.
Non era paura, solo un senso di disagio.

 

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